Folgorati lungo la via di Auschwitz?
La deriva della pedagogia della Shoah
Viviamo in un’epoca in cui l’azione simbolica tende troppo spesso a sostituirsi al pensiero: invece dell’analisi e della riflessione, privilegiamo i rituali collettivi e le commemorazioni dei tragici eventi della storia, alimentando una sorta di religione civile che ci rassicura e ci consola. Ma soprattutto, nell’epoca del moltiplicarsi dei Giorni della Memoria, assistiamo da più parti a un fastidioso buonismo e a una retorica delle buone intenzioni che tradisce un’immagine a dir poco ingenua della storia.
L’esempio più illuminante sono probabilmente i viaggi collettivi ad Auschwitz, di cui i “Treni della memoria” rappresentano un paradigma singolare nel nostro Paese. Da almeno un decennio si è radicata la convinzione in buona parte degli insegnanti, degli educatori ed operatori della memoria, persino degli ambienti ebraici, che la trasmissione della memoria della Shoah debba passare obbligatoriamente per una visita collettiva sul luogo dello sterminio. In altre parole, in virtù di un dogma indiscutibile, pena l’accusa di essere contro la memoria della Shoah, si ritiene assolutamente indispensabile per poter davvero capire la storia del genocidio e trasmetterla alle giovani generazioni andare a visitare le rovine dei lager e compiere un viaggio educativo, quasi iniziatico, ad Auschwitz, il cui impatto sarebbe sufficiente a stimolare una maggiore responsabilità civica nei suoi giovani visitatori. Un viaggio interpretato spesso come antidoto all’indifferenza, quasi una sorta di vaccino per evitare il ripetersi dei crimini e per costruire un futuro democratico, nell’illusione di opporre il presente al passato, la vita alla morte, il bene redentore alla barbarie.
È notizia recente che nel maggio prossimo partirà da Bruxelles con destinazione Auschwitz il “Treno dei Mille”. Un lungo viaggio che, percorrendo la rete ferroviaria di mezza Europa, condurrà mille giovani di varie nazionalità (tra cui 50 Italiani) a visitare l’ex campo di concentramento e di sterminio in Polonia con l’obiettivo dichiarato dagli stessi organizzatori, – tre istituzioni belghe, la Fondation Auschwitz, l’Instituto des Vétérans e la Fédération Internationale des Résistants -, di promuovere “la mobilitazione di massa altamente simbolica di una gioventù europea disposta a raccogliersi solennemente in nome della Democrazia e contro l’estremismo politico”. Varrebbe la pena chiedersi se sia assolutamente necessario investire centinaia di migliaia di euro e fare così tanta fatica per andare a discutere di valori democratici e di diritti dell’uomo proprio sulle rovine dei crematori, dal momento che Auschwitz non ha redento nessuno e i genocidi e i crimini di massa continuano a compiersi sotto i nostri occhi, nell’indifferenza più totale di buona parte delle società illuminate. Eppure forte è la convinzione che vedere con i propri occhi il luogo simbolo della messa a morte degli ebrei europei rappresenti il più potente strumento di sensibilizzazione per i problemi del presente, perché “Ricordare il milione e mezzo di bambini bruciati nei lager – ha dichiarato il 27 gennaio scorso Ugo Caffaz, tra i promotori per la Regione Toscana del primo di questi treni della memoria, partito nel 2002 dalla stazione di Firenze, -serve a pensare ai tanti che oggi muoiono di fame. Se non si ricordano i primi ci dimentichiamo anche dei secondo. Non esiste un antidoto per il razzismo ma esistono i vaccini. E il treno è un modo per essere sicuri di fare periodicamente un richiamo necessario.”
D’altro canto, è proprio l’Italia l’unica nazione europea ad aver fatto dei “Treni della memoria” un fenomeno di indiscussa popolarità e di unanime sostegno bipartisan, delle istituzioni pubbliche di destra e di sinistra, tanto da meritare il conferimento della medaglia d’oro del Presidente Napolitano. Organizzati da diverse regioni italiane – solamente nello scorso anno sono partiti ben dieci treni della memoria alla volta di Auschwitz – grazie a generosi finanziamenti pubblici e privati , sono viaggi in grado di condurre migliaia di studenti e centinaia di insegnanti, spesso accompagnati da testimoni, ma anche da politici, artisti, intellettuali, e giornalisti, contribuendo a piazzare il nostro Paese al terzo posto per numero di visitatori (74mila) del sito concentrazionario, dopo la Polonia e il Regno Unito, e prima di Israele, Germania e Francia.
Esperienze collettive certamente intense e partecipate, quasi sempre ben preparate didatticamente, ma che non sono garanzia di un buon insegnamento della storia della Shoah e che pagano il prezzo di una sovraesposizione mediatica e di una confusione di obiettivi.
Nel primo caso, il viaggio collettivo con centinaia di persone, spesso di età, provenienze e conoscenze diverse, impone una ferrea organizzazione logistica che sposta in secondo piano la preoccupazione per la preparazione storica preliminare degli studenti (e prima ancora degli insegnanti); inoltre, la visita di massa al sito ha come conseguenza la passività dei partecipanti, che devono seguire, ascoltare, guardare quello che viene loro indicato e nei tempi stabiliti per tutti. Se la conoscenza è un percorso individuale fatto di tappe, Auschwitz non è un luogo che può essere compreso in poche ore di visita. Quanto alla confusione di obiettivi che sottintende al progetto del viaggio ad Auschwitz, e in particolare del Treno della Memoria,varrebbe la pena chiedersi perché si ritiene indispensabile far coincidere la lezione sulla Shoah con il viaggio ad Auschwitz? In che misura il fatto che Auschwitz sia diventato metonimia della Shoah altera profondamente la nostra conoscenza del genocidio, contribuendo a confonderci le idee?.
Tralasciando i casi più inquietanti di esperienze di treni della memoria che conducono gli studenti a Birkenau per commemorare pubblicamente le vittime della mafia, è innegabile che la confusione regni spesso sovrana nei progetti didattici che motivano questo tipo di viaggi.
Si pensa di far capire meglio agli studenti la Shoah portandoli in Polonia? Ma Auschwitz-Birkenau non è Treblinka dove la regola per tutti gli ebrei deportati era la morte immediata. Il fatto stesso che qui i nazisti effettuarono una selezione tra i deportati ebrei (e solamente su questi) indica già di per sé un’anomalia nel sistema della messa a morte. I 200.000 ebrei che vissero nel campo erano meno della metà degli ebrei prigionieri del ghetto di Varsavia, tanto per dare un’idea di dimensione del crimine. Oltre al fatto che occorre tempo e pazienza per spiegare ai nostri studenti che Auschwitz non è il luogo dello sterminio di milioni di persone, politici, ebrei, omosessuali, zingari e polacchi come si legge quasi ovunque. Ma è il luogo in cui due politiche criminali differenti si sono incrociate, il concentramento, cioè la prigionia e il lavoro coatto da un lato e lo sterminio dall’altro.
A Birkenau c’erano entrambe queste realtà e non è facile capirlo vedendo lo stato attuale del sito che si presenta, al visitatore frettoloso e impreparato, come un mucchio di rovine. “Ad Auschwitz non c’è niente da vedere se prima non si sa che cosa vedere”, ha scritto Annette Wieviorka. E difatti, le rovine non sono identiche, perché i nazisti si preoccuparono di distruggere solamente gli impianti della messa a morte, senza preoccuparsi di toccare le strutture concentrazionarie che crollarono solo a causa delle intemperie e dei saccheggi da parte della popolazione locale nell’immediato dopoguerra.
Perché si portano i ragazzi ad Auschwitz nei mesi invernali? Forse perché il freddo polare, la neve, i colori lugubri della natura possano trasmettere qualcosa di quello che videro e sentirono i deportati al loro arrivo? Peccato che quasi il 90% degli ebrei deportati in questo luogo non ebbero nemmeno il tempo di avvertire il freddo o di guardare il colore del cielo perché vennero uccisi appena scesi dal treno. Perché si ritiene indispensabile il ruolo del sopravvissuto come accompagnatore del viaggio? Con la sola eccezione dei superstiti dei Sonderkommandos come Shlomo Venezia, costretti a lavorare nelle camere a gas e a guardare in faccia l’assassinio – nessun sopravvissuto può essere in grado di spiegare qualcosa del processo di distruzione, cioè della Shoah nel senso più letterale del termine. Il suo racconto può certamente essere di grande importanza ma per spiegare la vita, non la morte, ad Auschwitz, cioè la prigionia, la fatica, la schiavitù, in sintesi l’esperienza concentrazionaria che accomuna, nelle sue privazioni e sofferenze, tutti i reduci dei lager. Il fatto stesso che ci siano sopravvissuti di Auschwitz rende difficile la comprensione dell’evento Shoah. Perché non ci sono sopravvissuti di Belzec o Treblinka, o delle fucilazioni di massa operate dalle Einsatzgruppen a est, tranne un pugno di eccezioni.
E ancora, perché si espongono i giovani alla visione più brutale dell’orrore – le vetrine con i miseri resti delle vittime al Museo di Auschwitz – senza fornire loro adeguati strumenti di messa a distanza e di riflessione? Al di là della commozione che si prova guardando tali resti, è indispensabile essere consapevoli che quello che si vede dietro al vetro non sono gli ebrei e non sono nemmeno esseri umani. Perché c’è uno scarto sensibile tra quello che si vede oggi (gli oggetti, gli stracci, le ossa, metonimia dei corpi scomparsi) e quello a cui tali visioni rimandano (persone in carne e ossa, con una loro diversità fisica, anagrafica, linguistica, religiosa, politica….) e su questo scarto si dovrebbe lavorare maggiormente con gli studenti.
Infine perché si tende ad appiattire la lezione su Auschwitz come mera commemorazione delle vittime? Identificando la lezione di storia della Shoah con il viaggio della memoria (o comunque con la preparazione al viaggio), inevitabilmente tendiamo a creare le condizioni per mettere in atto un processo di identificazione che spinge sulla compassione e sul senso di colpa per ciò che è accaduto. La visione dell’orrore e della sofferenza della vittima dovrebbe indurci ad agire nel nostro quotidiano con maggiore responsabilità civica? Eppure, la commemorazione delle vittime non porta da nessuna parte senza una riflessione sul male inteso politicamente e non solo moralmente. E riflettere politicamente sul male significa inevitabilmente spostare la nostra attenzione sui carnefici, sugli uomini delle SS: chi erano? Che cosa pensavano? Come si sono formati intellettualmente? Perché hanno commesso un tale crimine? Interrogarsi sui carnefici non significa tuttavia indurre i giovani a credere che dietro qualunque uomo ordinario si nasconda l’animo di un sadico assassino e cadere nella banalità del male come componente dell’essere umano, ma significa riflettere su come l’adesione a un’ideologia e la pressione del gruppo sul singolo possano, in determinate circostanze, produrre situazioni favorevoli al compiersi del crimine.
E’ lecito, senza essere tacciati di revisionismo e pur continuando a credere nell’importanza didattica ed educativa della visita di un luogo della memoria, esprimere preoccupazione per questa retorica delle buone intenzioni che ha fatto assumere all’insegnamento della storia una pericolosa deriva? In un Paese in cui la lezione di storia è sacrificata a un paio di ore settimanali e addirittura rinominata, per direttiva ministeriale, in “Cittadinanza e Costituzione”, la conoscenza puntuale dei fatti, il ragionamento politico sul crimine e la riflessione etico-morale sul male declinano sempre più verso una sorta di catechismo laico. E l’insegnamento di un genocidio come la Shoah diventa un pretesto per una generica apologia del bene e dei diritti umani, senza che ci sia un nesso tra il vedere (le rovine dei crematori) e il conoscere (i fatti), tra il comprendere (come e perché è accaduto) e il reagire (che tipo di riflessione e di insegnamento possiamo trarne).
La memoria non può diventare il discorso che sostituisce l’insegnamento della storia. Ai giovani non dobbiamo per forza chiedere di diventare tutti “sentinelle della memoria” o, a loro volta, testimoni. La lezione di Auschwitz ci chiede altro: rivalutare pienamente la nostra capacità di saper pensare e di agire di conseguenza. Perché nella società contemporanea i germi che hanno preparato il disastro, i massacri di massa, sono ancora qui, potenzialmente fertili.