Viaggi della memoria: pellegrinaggi laici ?
Problemi, limiti e derive della pedagogia dei luoghi come modello di insegnamento della Shoah di Laura Fontana, Direttore Istituto Storico della Resistenza di Rimini
In un’epoca in cui comitive sempre più numerose di giovani studenti partono da ogni luogo del pianeta, in treno, in pullman o coi voli low-cost, per visitare Auschwitz e gli altri lager nazisti, parrebbe evidente che l’insegnamento della Shoah e dei crimini commessi durante la Seconda guerra mondiale sia oggigiorno un fatto ormai assodato.
E’ stato calcolato dal registro del Museo del campo che ogni anno visitano il complesso di Auschwitz-Birkenau almeno 500.000 persone, tra le quali soprattutto studenti polacchi ed ebrei americani, seguiti da comitive di francesi, israeliani e italiani (circa 33 mila ogni anno), un turismo concentrazionario, come lo definisce polemicamente il filosofo engagé Alain Finkielkraut, (figlio di un ebreo sopravvissuto allo sterminio) che arriva, guarda, fotografa e se ne va nel giro di poche ore.
A Finkielkraut fa eco lo scrittore italiano di origini ebraiche Alessandro Piperno, la cui dichiarata ostilità per il Giorno della Memoria non per quello che rappresenta, ma per quello che è diventato, affidata alle pagine del Corriere della Sera di due anni fa ha aperto il dibattito sulle derive della memoria trasformatasi, secondo alcuni, in una sorta di religione civile. C’è qualcosa di estetizzante nella commozione delle scolaresche sgambettanti sui prati di Auschwitz, ma ancor più nell’enfasi con cui i loro insegnanti la reclamano al grido “Non dimenticate!”ha scritto Piperno, rara voce fuori dal coro che ha denunciato le derive di una visione compassionevole e vittimistica della storia, con un’interpretazione moraleggiante che coniuga il verbo ricordare all’imperativo. Il monito di “ricordare affinché non accada mai più” trasmette un fastidioso buonismo e un’immagine oltremodo ingenua della storia, dal momento che Auschwitz non ha redento nessuno e mi pare completamente priva di fondamento l’idea che la memoria sia una garanzia per evitare il ripetersi dei crimini e un vaccino per costruire un futuro democratico. Diffido, dunque, da chi interpreta questi viaggi della memoria secondo una prospettiva teleologica, come se andare ad Auschwitz e vedere di persona quei luoghi possa fornire un antidoto contro l’indifferenza, l’intolleranza e la discriminazione.
Solamente negli ultimi anni, l’Italia ha visto un’inflazione di viaggi di istruzione ai lager nazisti, con una marcata predilezione per Auschwitz-Birkenau a scapito di campi più piccoli, meno conosciuti e frequentati e, soprattutto, marginali rispetto alla deportazione degli ebrei, con il risultato di un rovesciamento totale della memoria collettiva rispetto ai primi anni del Dopoguerra, quando invece era la deportazione politica con Dachau e Buchenwald al centro dell’attenzione pubblica. Malgrado un innegabile progresso nella pedagogia della Shoah che ha visto nell’ultimo decennio la realizzazione di progetti scolastici davvero molto originali e partecipati, continuano ad esistere, purtroppo, numerosi casi di viaggi organizzati da insegnanti presi dal delirio di onnipotenza che mettono in piedi circuiti di migliaia di chilometri in pullman per vedere in 5 giorni qualcosa come Vienna, Praga, Cracovia e Auschwitz-Birkenau, come se la visita a un lager potesse stare tra la gita sul Danubio e la visita del castello di Sissi o scolaresche delle elementari, sempre più numerose, che visitano la Risiera di San Sabba, il cui approccio è di notevole difficoltà e lettura anche per un pubblico adulto e avvertito.
Un sempre maggiore consenso lo ottengono, in particolare, i “treni della memoria” organizzati da varie Regioni italiane, viaggi in grado di condurre in Polonia – grazie a generosi finanziamenti pubblici e privati- migliaia e migliaia di studenti, accompagnati dai loro insegnanti e, spesso, anche dai pochi sopravvissuti ancora in grado di testimoniare. Esperienze collettive certamente intense e partecipate e, a detta dei colleghi che vi hanno preso parte, quasi sempre ben preparate didatticamente, ma che pagano il prezzo di una sovraesposizione mediatica. I grandi numeri – la folla di centinaia di giovani che camminano tra il filo spinato, in gruppi ordinati per colore o per lettera alfabetica, il Sindaco e gli amministratori con la fascia tricolore, accompagnatori, fotografi e reporter al seguito, i testimoni con i loro distintivi della prigionia – sono l’elemento chiave per creare un evento degno di interesse, sostegno e attenzione da parte dei politici e degli sponsor, mentre su tutto il resto che nel nostro Paese viene compiuto per insegnare la Shoah cala il silenzio e la partecipazione delle Istituzioni.
Eppure, moltiplicare i viaggi della memoria e le iniziative sulla Shoah non pare essere una garanzia assoluta di un insegnamento corretto della storia del genocidio ebraico, tanto più che, come dice Georges Bensoussan, il massimo storico francese dell’argomento: mai come oggi la Shoah viene insegnata nelle scuole e la memoria di questo crimine è al centro del dibattito collettivo eppure mai come oggi l’antisemitismo è più vivo che mai.
Sempre in Francia, Paese che dopo la Germania, è quello in cui storiografia e insegnamento hanno meglio indagato la questione dell’occupazione e del consenso al nazionalsocialismo, soprattutto nei suoi risvolti nazionali, il Presidente Nikolas Sarkozy ha di recente suscitato un vivace dibattito con la sua proposta di rendere obbligatorio lo studio della Shoah per tutti gli alunni e le alunne di CM2 (quinta elementare), mediante l’adozione dell’identità di un coetaneo, un bimbo francese ed ebreo, morto a seguito della deportazione. Una metodologia dell’identificazione che avrebbe lo scopo, secondo il Premier, di rendere più efficace la memoria, esortando i ragazzini francesi a immedesimarsi nelle sorti delle vittime, ovvero di uno dei 14.000 bambini ebrei francesi che finirono la loro vita ad Auschwitz. Nulla di originale, a dire il vero, come sanno tutti i visitatori del Museo dell’Olocausto di Washington che al loro ingresso si vedono consegnare la copia di un passaporto di un ebreo deportato e ucciso, con tanto di fotografia e di breve biografia, allo scopo di permettere l’identificazione con la vittima e di dare un nome e un volto ai 6 milioni di ebrei assassinati con la Shoah.
Tuttavia, mentre la visita a un Museo/Memoriale è un atto volontario, l’idea di Sarkozy pare insistere sull’obbligo della memoria fin dalla più tenera età e protende pericolosamente verso il rischio di rivendicazioni storico-sociali da parte delle altre minoranze che popolano la Francia (e non solo la Francia), in base a quella che viene definita la “concorrenze delle memorie”. Per quale ragione un ragazzino musulmano algerino o senegalese, di nazionalità francese, dovrebbe sentire come suo dovere immedesimarsi nelle sofferenze di un coetaneo ebreo morto durante la guerra? E’ chiaro che il discorso della Shoah come tragedia dell’umanità e non del popolo ebraico va affrontato in tutt’altra direzione.
Ad ogni modo, la proposta di Sarkozy è stata bocciata da tutto il mondo ebraico, Simone Veil in testa che l’ha definita su L’Exprès del 15 febbraio scorso « Inimaginable, insoutenable, dramatique et surtout injuste ». Insostenibile e ingiusto, anche per la maggioranza degli storici e degli insegnanti d’Oltralpe, fermamente ostili alla proposta ministeriale per una serie di ragioni articolate che potremmo sintetizzare in tre punti-chiave : 1) no a tramandare un modello di conoscenza del passato basato sul dovere di ricordare come obbligo civico, la memoria collettiva non può essere un catechismo laico imposto dall’alto; 2) no all’utilizzo della memoria individuale come chiave esclusiva di lettura della storia ; 3) no ad una politica della memoria che renda l’approccio alla Shoah un qualcosa di terribilmente compassionevole, insinuando nelle giovani coscienze un malsano senso di colpa per un passato di cui non possono essere ritenuti responsabili.
Certo, anche in Italia sembra incontrare buoni consensi, soprattutto nei docenti di scuola media, una certa pedagogia dell’emozione e dell’empatia, basata sull’assunto che lo stimolo a una vera comprensione del passato, soprattutto con alunni in età pre-adolescenziale, passi per via privilegiata dall’emozione e dall’autobiografia. Tale principio non mi pare sia condivisibile a cuor leggero, a meno che il docente non si senta perfettamente in grado di padroneggiare uguali competenze storiche e abilità psicologiche per frenare le derive emozionali ed effettuare un percorso a ritroso che eviti l’annegamento nelle lacrime e nello sconforto per riportare il piano della conoscenza verso un ragionamento più freddo e distaccato rispetto ai fatti narrati.
E’ dunque lecito, senza essere tacciati di revisionismo, esprimere preoccupazione per questi pellegrinaggi collettivi ad Auschwitz e per questa retorica delle buone intenzioni che rischia di produrre rischi non di poco conto nel mondo giovanile, quali per esempio l’indifferenza o l’insofferenza per l’argomento?
Non è privo di significato osservare che oggi sono diventati rarissimi i progetti didattici dedicati allo studio della Shoah che non abbiano il viaggio ai lager nazisti come elemento fondante e centrale del percorso stesso.
Sgomberiamo subito il campo da ogni equivoco : andare ad Auschwitz (o a Mauthausen o alla Risiera di San Sabba) non è affatto indispensabile per la comprensione della storia, perché allora saremmo costretti per analogia e per coerenza didattica a sostenere che non possiamo capire nulla della guerra atomica se non ci rechiamo di persona a visitare Hiroshima o Nakasaki e la conoscenza della storia non passerebbe più dallo studio dei fatti e dall’analisi incrociata e critica delle fonti, ma si baserebbe puramente sull’impatto visivo dei luoghi dove si sono compiuti i fatti evocati.
Alberto Cavaglion, nei suoi dieci « Piccoli consigli a chi si mette in viaggio », afferma con giustezza che I migliori viaggiatori di solito sono persone sedentarie e che è possibile capire realmente la natura di un luogo senza mai andarci. Anzi, spesso è più utile leggere un buon libro, non per forza di cose su Auschwitz o sulla Shoah, per avvicinarsi all’argomento e predisporsi allo stato d’animo giusto di pazienza e di concentrazione.
Certo, le giovani generazioni sono estremamente sottoposte a stimoli visivi di ogni tipo, poco inclini alla lettura, tanto che da Homini sapiens ci siamo trasformati in Homini videns, ovvero io so quello che ho visto e quello che ho visto è per me conoscenza dei fatti.
Al contrario, studiare e capire qualcosa della Shoah è un processo lungo e impegnativo per tutti, che richiede l’umiltà dell’ignoranza da colmare con le letture e una sana curiosità intellettuale per interrogarsi non sul gas, la tecnologia della messa a morte e il numero delle vittime, ma su quelli che sono i punti realmente importanti da indagare, che fanno della lezione di storia su Auschwitz, come insegna incessantemente Bensoussan, non l’ennesimo corso specialistico e nemmeno una vaccinazione civica contro il risorgere del male, ma una vera e propria lezione politica :perché una società arriva a decretare l’assassinio di una parte della propria popolazione ? perché è accaduto proprio in Germania ? perché cultura e barbarie non sono dissociabili nella modernità l’una dall’altra ?
L’attenzione e la concentrazione che un simile argomento richiede sono difficilmente compatibili con le visite di massa che impongono modalità organizzate rigidamente e tempi brevi. Non si può negare che l’aumento esponenziale del numero dei viaggi e soprattutto dei loro partecipanti sia indirettamente proporzionale alla durata che si dedica alle visite dei luoghi (la scelta dei finanziatori è quella di sostenere un viaggio che coinvolta un alto numero di studenti che in media dedica una giornata di visita ai due campi di Auschwitz e di Birkenau e non di sostenere diversi viaggi agli stessi luoghi ma per gruppi molto più piccoli e per soggiorni più lunghi, che magari uniscano alla visita del luogo di messa a morte anche i luoghi dove le comunità ebraiche vivevano prima della guerra).
A differenza di molti colleghi, non credo che il problema principale dell’organizzazione dei viaggi della memoria sia la preparazione storica ed emotiva dei ragazzi, che a me pare banalmente conditio sine qua non per poter affrontare una tale impresa con un minimo di buon senso e di responsabilità educativa.
Mi pare, invece, che le difficoltà siano di altro genere, ad incominciare dal tenere in giusto conto l’aspettativa mentale del partecipante, giovane o adulto che sia. Chi arriva sui luoghi della storia della deportazione, crede di avere già visto tutto e nella visita ad un lager non fa altro che cercare conferma di ciò che ha letto o visto, di ciò che crede di conoscere già.
Numerosi lavori effettuati da docenti ed educatori italiani che hanno sondato questo immaginario comune, hanno evidenziato come la maggioranza delle persone associ genericamente elementi e caratteristiche di un lager specifico come Auschwitz-Birkenau, a tutti gli altri campi che hanno avuto funzioni e condizioni completamente diverse tra loro (Dachau assomiglia a Treblinka, Fossoli a Gusen, tutti i deportati hanno la divisa a strisce, il numero tatuato sul braccio e uno stesso destino, tutti lavorano come schiavi e tutti sono sottoposti alla selezione tra abili e inabili).
Smontare questa pre-conoscenza codificata e nutrita soprattutto di immagini, spesso macabre e violente, e non di studi o letture è solo il primo, indispensabile, passo per preparare adeguatamente coloro che si accingono a visitare un luogo della memoria. La seconda tappa, invece, riguarda la contestualizzazione e, ancora una volta, non mi riferisco solo a quella storica. Il luogo, il lager che si va a visitare non è situato su Marte, in una dimensione creata dai carnefici al di fuori del mondo comune e tranquillo, ma, al contrario, è ben radicato in uno spazio geografico e in un tessuto culturale e urbano, tra l’altro spesso molto bello paesaggisticamente tanto da provocare uno choc nel visitatore (Auschwitz con le baracche coperte dalla neve in un silenzio irreale, Birkenau con i prati in fiori, il fiume che scorre e gli uccellini che cinguettano).
Mauthausen o Belzec è vicino o distante dal centro abitato? Tale distanza è rimasta immutata settant’anni dopo la fine della guerra? Il territorio ha subito prima e dopo l’apertura del lager una trasformazione? (evacuazione, ripopolamento…) La situazione naturale e logistica della zona ha esercitato un ruolo utile al funzionamento del campo? Sono tutte domande utili per permettere al visitatore di porsi in una dimensione mentale più ampia della mera visita alla struttura memoriale, sollecitandolo a osservare anche quello che c’è intorno, fuori dal perimetro attuale del campo.
Terza tappa è infine la preparazione della messa a distanza: quello che noi vediamo oggi non è affatto il luogo della deportazione e della morte di allora. Ad Auschwitz o a Mauthausen sono arrivati esseri umani diversissimi tra loro per mille elementi, mentre noi oggi vediamo un’unica immagine di vittime annientate e cancellate anche nella dignità della morte, mucchi di oggetti buttati, stracci, ossa, visioni di cadaveri che nulla ci raccontano di quegli uomini e quelle donne.
Malgrado tutta la nostra buona volontà, non possiamo capire veramente quello che i deportati arrivati in quel posto hanno patito e dobbiamo accettare questa impossibilità che non è affatto sintomo di insensibilità. Settant’anni dopo, ci troviamo a visitare un campo profondamente diverso, parzialmente distrutto, poi ricostruito e modificato, più volte rimaneggiato per proteggerlo dal disfacimento del tempo che lo usura e lo corrode inesorabilmente. La sfida di noi che accompagniamo ogni anno i giovani studenti a visitare i campi nazisti è anche quella di aiutarli a leggere l’opacità dei luoghi, perché come ha detto la storica Annette Wieviorka A Auschwitz non c’è assolutamente nulla da vedere se non si sa prima quello che si cerca. Bisogna sapere per vedere qualcosa a Birkenau, campo di rovine e baracche in sfacelo. Senza conoscenza, senza studio, non c’è assolutamente nulla da vedere nel campo, se non i miseri resti di coloro che furono uccisi.
Eppure, nulla del luogo aiuta a capirlo. Ad Auschwitz I, per esempio, nell’immediato dopoguerra venne ricostruito il muro delle esecuzioni, a fianco del Blocco 10, così come il crematorio e i forni. Gli arberi sono stati ripiantati, le facciate delle baracche ridipinte. Le trasformazioni del luogo, l’abbandono, il tentativo di recuperare alcune parti prima dello sfacelo totale, fanno sì che Primo Levi nel 1965 dichiari di non riconoscere affatto lo Stammlager nel luogo che vide il suo arrivo.
Anche il Museo di Auschwitz, allestito all’interno di alcuni Blocchi, crea non pochi problemi di comprensione al visitatore. Non solo perché il Museo contiene in gran parte oggetti appartenenti agli ebrei uccisi a Birkenau, ma anche per il significato che essi trasmettono.
Mentre la direzione del Museo li intende come prove del crimine commesso, il visitatore è indotto a vedere le vittime con gli occhi del carnefice nazista: un mucchio di occhiali senza occhi, di scarpe senza piedi, di vestiti senza persone, un mucchio di poveri oggetti che rimandano allo sfacelo, non alla vita prima dell’arrivo nel campo. Le vittime sono designate con la loro assenza di umanità, fissate per sempre nell’istante che segue la loro distruzione totale. Ad Auschwitz non c’è nulla che ci trasmetta la grande ricchezza e varietà del mondo ebraico prima della Shoah, un mondo fatto di diversità, di abilità, di talenti, di creazioni artistiche, culturali, economiche e scientifiche.
Un altro problema dei viaggi della memoria è costituito dalla presenza del testimone, il sopravvissuto alla deportazione nel campo che accompagna i gruppi di studenti in visita.
E’ evidente che il suo racconto sia di grande importanza, perché permette di dare un nome e un volto alla storia dei manuali scolastici, crea un collegamento diretto tra narratore e ascoltatore, suscita empatia, coinvolgimento.
Eppure, il testimone, la sua memoria per forza di cose parziale e soggettiva, costituisce un problema nella misura in cui rappresenta un punto di vista altro rispetto a quello della storia. Il sopravvissuto accompagna i giovani visitatori a vedere quello che è stato un luogo creato dai nazisti. Il suo essere oggi guida e narratore gli conferisce una nuova ragione di vita, gli permette di addomesticare in un certo senso un luogo orribile e incomprensibile durante la sua prigionia, gli attribuisce un ruolo positivo e salvifico, per se stesso, che scopre nella testimonianza continuamente rinnovata una ragione di vita e per gli altri, perché il racconto diventa dovere di trasmissione per i posteri.
E’ indispensabile, allora, se non vogliamo trasformare i nostri viaggiatori della memoria in meri turisti dei luoghi dell’orrore, evitare di puntare il meglio delle nostre energie mentali e delle nostre risorse economiche sulla visita dei luoghi della deportazione e della Shoah. Non credo serva ai nostri studenti ripercorrere in loco un’archeologia del disastro, accompagnati da specialisti in grado di spiegare nei dettagli il funzionamento di quella struttura o di quella modalità di uccisione. Il problema non è il gas, ma è l’uomo che ha fatto funzionare il gas. Nella Shoah non sono stati uccisi gli ebrei, ma la concezione, la sacralità stessa dell’umanità è morta, in una gigantesca operazione di disinfestazione biologica del mondo. Se non siamo capaci di ripercorrere le strutture del pensiero antidemocratico, portando il discorso e l’attenzione dei nostri giovani interlocutori sull’interrogativo del come sia stato possibile arrivare a questo, portarli ad Auschwitz è del tutto inutile e dannoso.
La memoria non può diventare il discorso che sostituisce l’insegnamento della storia.