Favole di Auschwitz
Disegnare per resistere all’orrore.
Nei campi di concentramento e di prigionia del sistema nazista (ma anche nei ghetti), i prigionieri tentarono disperatamente e con ogni mezzo possibile di resistere al lento annientamento psichico e fisico, non solo lottando ogni ora e ogni giorno per la propria sopravvivenza, ma anche per tentare di preservare la propria dignità di esseri umani. L’arte, laddove fu possibile praticarla anche con mezzi di fortuna, fu sicuramente uno degli strumenti privilegiati delle vittime, non tanto per rappresentare mimeticamente ’orrore di quei luoghi di morte, quanto per creare un piccolo spazio di libertà, di poesia, di fantasia, di straniamento, dando vita ad un mondo immaginario – il mondo di prima della Shoah, di casa, della famiglia, di una vita normale –capace di alleviare almeno per un breve momento il peso della sofferenza nel lager e la nostalgia indicibile per i propri cari.
Ringrazio moltissimo Jadwiga Pinderska-Lech, responsabile editoriale per il Museo di Auschwitz, per avermi fatto conoscere l’incredibile storia di queste favole che furono disegnate clandestinamente da alcuni prigionieri polacchi nel campo di concentramento di Auschwitz. Sfogliando il bellissimo volume (Bajki z Auschwitz, Favole da Auschwitz) che il Museo ha pubblicato nel 2009, a cura di Jarek Mensfelt e della stessa Pinderska-Lech, mi viene voglia di intervistare Jadwiga per saperne di più (anche per colmare la mia ignoranza del polacco, lingua del volume).
Ecco il nostro dialogo tra Parigi e Auschwitz:
D-Come sono nate queste favole e perché vennero disegnate in un luogo come Auschwitz?
R- “Sono il frutto dell’opera illegale realizzata da alcuni prigionieri polacchi che lavoravano negli uffici delle SS della Zentralbauleitung del lager, la sezione centrale di costruzione dove venivano studiati i piani di ampliamento del campo. L’idea nacque nell’estate 1944 dopo che uno di loro rinvenne casualmente, probabilmente nei pressi del Kanada (luogo del campo dove venivano immagazzinati i beni tolti ai deportati e alle vittime) un libretto di favole che, con ogni probabilità, apparteneva ad uno dei tanti bambini ebrei deportati dalla Cecoslovacchia e uccisi ad Auschwitz-Birkenau.
Sfogliare quelle favole colorate insieme agli altri compagni ebbe il potere di suscitare forti emozioni e l’insopprimibile desiderio di reagire in qualche modo: da un lato, il libretto richiamava il mondo magico e innocente dell’infanzia, del sogno, dell’età dell’innocenza capace di far sognare e di consolare chiunque, dall’altro, la consapevolezza dei tanti bambini assassinati in quel luogo si univa alla forte nostalgia per i figli rimasti a casa e al timore dei prigionieri di non uscire vivi da Auschwitz e dunque di non rivederli mai più. Tutto questo insieme di emozioni fece scaturire l’idea di creare nuove favole.
Avendo accesso ai colori, alla carta da ricalco e ai fogli, i prigionieri decisero di ricreare le storie secondo il gusto e la tradizione polacca, in modo da adattarle come fiabe destinate ai propri bambini ai quali desideravano inviarle come regalo.
D- Quanti furono i libretti di favole che riuscirono a realizzare i prigionieri?
R- In totale nel lager si arrivò a eseguire in clandestinità circa 50 esemplari. Tra i libretti realizzati vi furono: “La fiaba delle avventure del pulcino nero”, “La favola della lepre, della volpe e del gallo”, “Su tutto ciò che vive”, “Il matrimonio delle grandi vespe”, “L’enorme egoista” e “I racconti del gatto saggio”. Le favole si caratterizzano per il talento espressivo nel disegno e per la cura della calligrafia con cui si narrano le storie.
D- Siete riusciti a scoprire quali e quanti prigionieri esattamente abbiamo partecipato alla produzione dell’opera?
R-Al processo di creazione delle fiabe presero parte oltre 20 prigionieri. Alcuni componevano le versioni polacche dei testi, altri scrivevano con la loro bella calligrafia, decoravano con disegni, copiavano, cucivano insieme i quaderni e creavano le copertine, altri ancora si assicuravano che le SS o un testimone inaspettato non si avvicinassero.
D- Ma come facevano i prigionieri a far recapitare ai propri figli questi libretti? Doveva essere molto rischioso farli uscire segretamente dal campo.
R- Innanzitutto il solo fatto di utilizzare clandestinamente materiali di proprietà delle SS come la carta e i colori era considerato atto di sabotaggio e punibile con la morte. Inoltre, far uscire dal lager le pubblicazioni implicava l’accusa di allacciare relazioni con la resistenza o di divulgare informazioni sulle condizioni di vita nel campo. Insomma, i prigionieri rischiavano la vita nel dedicarsi a disegnare le favole per i loro bambini. Una volta pronti, i libretti venivano prelevati dai prigionieri dall’ufficio e, approfittando della disattenzione delle SS, trasmessi ai fidati lavoratori civili coi quali erano in contatto durante l’orario di lavoro. Questi ultimi a loro volta li facevano pervenire agli indirizzi segnalati.
Ringrazio ancora Jadwiga Pinderska-Lech, auspicando una prossima traduzione almeno in inglese per poter godere appieno di questa pubblicazione che si colloca, per le caratteristiche in cui fu prodotta, al confine tra opera d’arte (i disegni sono notevoli) e documento-testimonianza del lager.
Queste favole rappresentano un esempio singolare dell’esperienza concentrazionaria di Auschwitz, nel senso che solo condizioni favorevoli legate al tipo di lavoro svolto dai prigionieri nella Bauleitung, unite al talento degli artefici, lo resero, di fatto, possibile. Questi prigionieri, infatti, lavoravano al coperto, senza turni massacranti di lavoro in Kommandos (unità/squadre) all’aperto, sottoposti ad una sorveglianza meno rigida che in altri luoghi del lager e soprattutto riuscirono ad accedere abbastanza facilmente ai materiali tecnici necessari per il disegno e la scrittura. Tuttavia, l’eccezionalità della creazione non deve sminuire l’atto di resistenza di questi deportati che vinsero la paura di essere scoperti e puniti col desiderio di lasciare qualcosa di bello ai propri figli, che testimoniasse la bellezza della vita e la forza della fantasia.
Poiché tutto ad Auschwitz era vietato, salvo obbedire agli ordini dei carnefici, qualunque gesto o azione volto a preservare un briciolo di umanità e di dignità deve essere considerato, in quel contesto drammatico, come resistenza.
E a me l’idea che anche il mondo delicato e ingenuo delle favole riesca ad essere resistenza contro l’orrore di un mondo alla rovescia come Auschwitz mi conforta molto e mi sprona a pensare che, in fondo, abbiamo dentro di noi una luce capace se non di salvarci di consolarci e aiutarci a superare il buio. A volte, basta cercarla meglio per vederla.