Sopravvivere alla Shoah: un’eccezione, spesso una questione di fortuna

Sopravvivere alla Shoah: un’eccezione, spesso una questione di fortuna

Intervista di Jernej Šček a Laura Fontana
in “Sobotna priloga”, inserto culturale del quotidiano nazionale sloveno Delo, 27 gennaio 2024

La Shoah come fenomeno specificatamente e unicamente (anti)ebraico: i superstiti furono appena il 3%, mentre per i deportati politici nei Lager la percentuale è molto più alta, in alcuni casi sfiora l’85%. Come si spiegano queste proporzioni così diverse tra vittime e superstiti? In che cosa la Shoah si differenzia dalla deportazione dei non ebrei nei Lager?

La Shoah ha provocato la distruzione più di due terzi delle comunità ebraiche presenti in Europa (6 milioni di vittime su 9,5 milioni di ebrei residenti alla vigilia del conflitto). Un genocidio mira a distruggere l’intero gruppo umano preso di mira perché ritenuto “di troppo” sulla terra. Per questo, la quasi totalità degli ebrei catturati nel Reich e nei territori europei occupati non era destinata alla prigionia nei campi di concentramento, né al lavoro forzato, ma fu inviata verso i luoghi attrezzati per la loro uccisione.

Prendiamo il bilancio delle deportazioni dall’Italia occupata e da Rodi: su 7.817 ebrei inviati ad Auschwitz, i sopravvissuti sono 576 persone (fonte Fondazione CDEC Milano), appena il 7%. La percentuale è ancora più agghiacciante per i bambini: su 776 minori di 14 anni alla data dell’arresto, hanno fatto ritorno a casa 25 bambini e bambine, il 3%. La natura del genocidio è qui, in questa proporzione tra sommersi e salvati che indica la salvezza come eccezione, spesso frutto del caso. La Shoah ha inghiottito intere famiglie, coi neonati, i disabili, gli anziani, le donne incinte. In alcuni Paesi, come la Polonia, l’Olanda, la Lituania, la comunità ebraica è stata quasi del tutto distrutta.

La Germania nazista ha commesso altri crimini efferati che hanno preso di mira individui e gruppi di persone diverse. La Shoah non deve essere isolata dal contesto storico, ma va studiata in relazione alle altre politiche di violenza di massa messe in atto in quegli anni; l’approccio comparativo fa emergere similitudini e differenze, illuminando la specificità di ogni fenomeno.

I numeri sono quindi sostanza stori(ografi)ca?

Lo storico non può basare l’analisi sulla sofferenza umana, perché è incommensurabile, ma deve indagare la natura del crimine, la modalità di attuazione, i contesti, il numero complessivo di vittime. Se guardiamo al sistema dei campi di concentramento, vi furono rinchiuse più di 2,2 milioni di persone di ogni nazionalità, ma riguardò marginalmente gli ebrei, salvo per gli ultimi mesi di guerra. I deportati politici furono perseguitati perché ritenuti colpevoli di opposizione e resistenza al nazismo; per molti la punizione fu il Lager dove subirono abusi e privazioni terribili. La violenza fu un elemento quotidiano e arbitrario, un prigioniero poteva morire in qualsiasi circostanza, anche se in grado di lavorare. A differenza degli ebrei catturati nell’ambito della “Soluzione finale”, la finalità della loro deportazione non era l’assassinio sistematico, ma l’internamento a scopo punitivo, talvolta anche “rieducativo” attraverso la disciplina del Lager (per i detenuti di nazionalità tedesca).

C’è anche un altro elemento sostanziale che concorre a spiegare un bilancio di sopravvissuti molto diverso da quello dei deportati ebrei: i prigionieri contrassegnati col triangolo rosso erano quasi esclusivamente adulti, arrestati individualmente, raramente con l’intera famiglia. Per una donna, arrivare nel campo senza i figli e sapere che erano accuditi da parenti era determinante per sperare di sopravvivere e non lasciarsi abbattere psichicamente. Il bilancio dei politici sopravvissuti –categoria nazista ampia ed eterogenea, che non incluse solo gli oppositori e i partigiani – non è però attestabile all’85%, ma va differenziato per i diversi campi e anni di deportazione. Per fare solo un esempio, la

mortalità a Mauthausen fu tra le più alte di tutti i Lager, con almeno 90.000 vittime su 190.000 internati (i superstiti furono poco più del 47%).

In che cosa la Shoah si differenzia dagli altri genocidi?

Ogni evento storico è unico in quanto irripetibile, anche se il replicarsi di atrocità di massa può far pensare che si tratti di una replica dello stesso fenomeno in un nuovo contesto. Prima e dopo lo sterminio degli ebrei ci sono stati altri genocidi e atrocità di massa, nessuno è peggiore di un altro, o merita maggiore attenzione. È più corretto definire la Shoah come un evento senza precedenti nella storia. Aver concepito Treblinka e Auschwitz come fabbriche di messa a morte funzionanti secondo le regole di efficienza e di razionalità della modernità industriale – migliaia di esseri umani scendono dai treni, in poche ore vengono uccisi in modo atroce e letteralmente disintegrati, polverizzati nella natura come se non fossero mai esistiti -è qualcosa di spaventosamente inedito.

La Shoah ha mostrato come l’impensabile è diventato possibile. Gli ebrei non furono uccisi per uno scopo territoriale di conquista o di sfruttamento economico, ma in applicazione di una visione del mondo radicalmente antisemita e totalizzante, che non ammetteva deroghe, né limiti. Non solo tutti gli ebrei avrebbero dovuto morire, ma il nazismo voleva sradicare ogni traccia dell’influenza ebraica nel mondo, nella cultura, nelle arti, nella filosofia, nelle scienze. Anche sui polacchi e sui sovietici non ebrei i nazisti riversarono una violenza senza eguali che causò milioni di vittime, tra civili e militari; a motivare questa barbarie non vi fu però un piano di genocidio, ma di sottomissione. Gli Untermenschen (sotto-uomini) slavi avrebbero dovuto essere ridotti in numero e in uno stato di perenne schiavitù.

Per comprendere la specificità del genocidio ebraico bisogna pensare alla Shoah come a una rottura antropologica che dopo Auschwitz ci ha mostrato il precipizio dell’umanità e ci costringe a riflettere sulle infinite possibilità di distruzione di cui dispongono gli uomini oggi.

Lo storico Georges Bensoussan ha parlato del genocidio come di una passione europea: la fabbrica di annichilimento e morte non come deviazione pazza e disumana, ma al contrario come l’apice della parabola di sviluppo della civiltà occidentale e europea. Qual è la sua opinione al riguardo?

Ritengo “Genocidio. Una passione europea” (Genocid, evropska strast) uno dei libri di riflessione politica sul male più importanti degli ultimi vent’anni. Bensoussan rompe con la narrazione della Shoah alla quale eravamo abituati, delineata dalla scansione temporale del nazismo e della Seconda guerra mondiale, per inserirla in un contesto storico molto più ampio e indagare la genesi intellettuale dello sterminio biologico. Non si tratta di ricercare le cause, perché non ci sono cause che spieghino il genocidio; il suo intento è quello di mettere a fuoco quel terreno culturale e politico sul quale ha germogliato l’odio ed è maturata l’idea della possibilità di cancellare un popolo dalla terra come soluzione definitiva a un problema e come metodo risolutivo di purificazione del male, qualunque forma esso abbia (il diavolo, la corruzione, il contagio batterico, la cospirazione della finanza mondiale, il bolscevismo, ecc.). In questo senso, Bensoussan dice che occorre studiare nella cultura europea moderna l’influenza dell’irrazionale, dell’isteria, della forza ideologica come motori propulsori verso una violenza distruttiva di massa.

La Shoah non è nata da un Sonderweg (itinerario speciale) imboccato dalla Germania di Hitler, non è stato uno sparo improvviso nella notte, una deviazione mostruosa dalla civiltà illuminista, ma deve essere considerata come una possibilità insita nella modernità stessa. La potenzialità omicida delle camere a gas deriva dallo sviluppo del pensiero tecnologico e industriale, vale a dire dal progresso e dall’efficienza che non concepiscono limiti, ma solo problemi risolvibili e processi migliorabili.

La razionalità del male – è questo il male assoluto: la disgiunzione tra ragione e bene?

È bene sottolineare che l’interpretazione della Shoah come prodotto della modernità che ne diede Zygmunt Bauman quasi 35 anni fa oggi non è più accolta all’unanimità dal mondo accademico. Se è vero che i crematori di Birkenau rappresentarono l’apice della tecnologia dell’assassinio, consentendo al carnefice di non essere a diretto contatto con le vittime, è sbagliato credere che rimpiazzino del tutto metodi di assassinio più primitivi. Il progresso della tecnica porta razionalità ed efficienza nelle uccisioni, ma non elimina i massacri efferati compiuti con estremo sadismo e nel caos più totale. Oggi sappiamo che le fucilazioni di massa e le uccisioni nei Gaswagen continuarono fino alla fine del 1944 nei territori sovietici, oppure furono utilizzate come metodi alternativi alla camera a gas, in funzione della situazione contingente. I perpetratori della Shoah si dimostrarono sempre creativi e flessibili per adattarsi al contesto, individuando il modo migliore per realizzare la Soluzione finale.

In sintesi: non concordo sulla teoria di un processo lineare della Shoah che dalla barbarie avrebbe sfociato nella modernità industriale, ma sono convinta che tecnologia, modernità e barbarie siano stati strettamente connessi. Basti pensare alle orge di sangue che caratterizzarono molti massacri di ebrei nei territori dell’Europa dell’est, senza necessità di avvalersi di centri attrezzati per lo sterminio e che avvennero alla luce del sole, sotto gli occhi della popolazione locale.

La questione ebraica è al centro del pensiero politico di Hitler, ma la Shoah viene realizzata per tentativi, tra misure persecutorie nel Reich, emigrazione forzata, espulsioni e poi con la Polonia e l’Aktion Reinhardt come banco di prova. È corretta questa ricostruzione storica?

La giudeofobia di Hitler è ossessiva fin dagli inizi, “Mein Kampf “trasuda di odio e disprezzo per “der Jude” (l’ebreo), creatura demoniaca che costituisce una minaccia mortale alla sopravvivenza della “razza ariana”. L’antisemitismo nazista eredita e porta all’estremo idee che circolavano in Europa da almeno un secolo, ma la ricerca storica ha dimostrato che fino all’estate 1941 l’idea che sia necessario eliminare dalla sfera di influenza tedesca gli ebrei non è elaborata come programma di sterminio. Dal 1933 all’estate 1941, Hitler mette in atto misure antiebraiche volte a risolvere “la questione ebraica”, senza però riuscirci del tutto. Bisogna tenere presente che per gli ebrei tedeschi, profondamente integrati nella società tedesca, lasciare la Germania è molto difficile e non sempre è un’opzione da considerare. In soli due anni, dal 1938 al 1940, tra annessioni e occupazioni, la Germania si ritrova sotto il suo dominio milioni di ebrei (solo i polacchi sono più di 1,8 milioni).

Agli occhi di Hitler questo rende “il problema” gigantesco e urgente, l’antisemitismo assume toni sempre più apocalittici all’insegna del “o noi o loro”: la Germania può trionfare e sopravvivere solo se l’intera “razza ebraica” verrà sradicata. I tre piani di espulsioni dal Reich verso est in luoghi remoti e inospitali (Nisko, Madagascar, Siberia) dove abbandonare gli ebrei e lasciarli morire d’inedia si rivelano fallimentari per ragioni diverse. Anche la creazione dei ghetti in Polonia è concepita da Heydrich come una misura temporanea, inizialmente non è pensata come fase preparatoria allo sterminio, ma lo diventerà dal 1942, con l’entrata in funzione dei tre centri di sterminio con camera a gas di Belzec, Sobibòr e Treblinka, nel Governatorato generale (Polonia occupata).

Una disumanizzazione progressivamente crescente ma intrinseca al pensiero nazista, quindi?

In sintesi, quando la Germania occupa la Polonia, la mentalità dei persecutori è talmente imbevuta di antisemitismo da considerare legittimi comportamenti estremamente brutali nei confronti degli ebrei, la cui vita non ha nessun valore. Erano stati educati all’odio e si divertirono a umiliare e abusare pubblicamente gli ebrei polacchi, anche fotografandoli e mettendosi in posa accanto alle loro vittime.

Non si può capire questa prima fase della Shoah che ebbe la Polonia come epicentro senza comprendere la visione del carnefice.

Per passare dalla violenza diffusa, anche inflitta con condizioni d’internamento inumane, al genocidio occorre un contesto di guerra e un piano coordinato di deportazioni e di assassinio. L’Aktion Reinhardt, la distruzione degli ebrei polacchi, coinvolse anche il campo di Majdanek e consentì nel giro di 20 mesi (marzo 1942-novembre 1943) di eliminare più di 1,8 milioni di persone, tra cui anche migliaia di ebrei di altri Paesi. Con Chelmno (150.000/200.000 vittime ebree) e Auschwitz (1 milione di vittime ebree), nei territori polacchi annessi, la Polonia rappresentò l’apice della Shoah. Nel valutare dove realizzare la Soluzione finale furono determinanti diversi fattori, come la dimensione della comunità ebraica polacca, la percezione nazista della Polonia come territorio destinato alla sottomissione totale e ad essere trasformato in spazio vitale tedesco, la sua rete ferroviaria ben collegata al Reich, ma anche la consapevolezza di non poter attuare uccisioni di massa nel Reich o nell’Europa occidentale.

Perché la guerra contro l’URSS segna un turning point nell’escalation della violenza nazista e avvia il genocidio?

In generale, la Seconda guerra mondiale offre alla Germania nazista nuovi scenari in cui lo stato di emergenza rende tutto possibile, senza bisogno di leggi o decreti che autorizzino a deportare in massa gli ebrei e poi a ucciderli. Le prime deportazioni di ebrei del Reich iniziano nel 1940, sono abbondantemente documentate come una questione di sicurezza e di ordine pubblico, sostanzialmente avvengono senza uso di violenza fisica.

Ma è soprattutto la guerra a est, prima in Polonia e poi contro l’URSS, a essere caratterizzata da un’estrema brutalità contro i civili, con particolare intensità ed efferatezza nei confronti delle comunità ebraiche. La radicalizzazione della violenza va letta in stretto collegamento con la visione ideologica nazista. L’URSS è una potenza che domina territori giganteschi da conquistare per il Lebensraum (spazio vitale) e incarna agli occhi di Hitler il nemico nella sua triplice dimensione: politica (il comunismo sovietico), razziale (gli slavi come esseri inferiori) e biologica (l’ebraismo). L’Operazione Barbarossa è fin dall’inizio una guerra di sterminio in cui il nemico non deve essere vinto ma distrutto, ed è l’ebreo a riunire le tre componenti ostili. Se a giugno e luglio 1941 a essere fucilati sono gli uomini ebrei in età da combattimento (sporadicamente alcune donne comuniste, ad es. in Lituania), da metà agosto anche le donne, i bambini e gli anziani vengono sistematicamente assassinati. A settembre, in due giorni sono fucilate a Babi Jar, nei pressi di Kiev, 33.771 persone.

Christopher Browning ha avanzato l’ipotesi che fu l’euforia dei primi mesi di guerra, quando la Germania pensava di piegare Stalin in poco tempo, ad accelerare le azioni delle forze occupanti tedesche, spingendole a rastrellare una comunità ebraica dopo l’altra per eliminarla. Alla fine del 1941, in sei mesi dall’avvio dell’Operazione, il bilancio delle vittime degli Einsatzgruppen (unità mobili) è attestato a più di 550.000 vittime (per la quasi totalità ebrei), un bilancio che indica chiaramente che il genocidio era iniziato, seppur su base regionale, cioè finalizzato a “ripulire” un territorio preciso.

Wannsee e la questione della “decisione della Soluzione finale”: non ci fu nessun ordine dall’alto, né una pianificazione centralizzata?

Per molto tempo gli storici si sono interrogati sul momento in cui Hitler decise di avviare lo sterminio degli ebrei e sull’esistenza di un documento scritto che potesse datare l’inizio della Shoah. Da almeno vent’anni, però, si tratta di un dibattito chiuso perché l’ordine non è stato ritrovato (forse non fu nemmeno necessario diramarlo formalmente) e gli studi sulla struttura del regime nazista hanno demolito la sua dimensione monolitica e verticistica, mettendo in luce una pluralità di centri di potere

spesso in aperta concorrenza tra loro, sia individualmente, si pensi solo alla rivalità tra Göring e Himmler, che come organizzazioni: le varie divisioni delle SS e della polizia, il partito, la Wehrmacht, i Gauleiter come Hans Frank. La conferenza che si tenne a Wannsee il 20 gennaio 1942 non rappresentò il momento della decisione della Shoah, ma la necessità di un coordinamento tra i rappresentanti del governo nazista per implementare il piano di genocidio su scala continentale. Heydrich era stato incaricato da Göring il 31 luglio 1941, sei mesi prima della conferenza, di predisporre tutte le misure necessarie per la realizzazione della Soluzione finale, ruolo che lo poneva ai vertici del progetto di genocidio, accanto al suo diretto superiore Himmler.

Oggi è stata definitivamente smontata l’idea di una decisione univoca della Shoah da parte di Hitler, o assunta dai vertici del regime a Berlino, a favore della tesi di un processo dinamico, influenzato cioè da diversi fattori contingenti, e piuttosto rapido perché databile a un periodo ricompreso tra la tarda estate 1941 e l’inverno 1941-1942, durante il primo anno di guerra contro l’URSS. In sostanza, le ricerche pubblicate negli ultimi 30 anni hanno mostrato come l’avvio dei massacri di massa nei territori sovietici invasi fu spesso il prodotto di azioni improvvisate e di iniziative personali dei comandanti degli Einsatzgruppen, delle SS e dell’esercito, nel senso che gli assassini agirono anche in assenza di ordini scritti dai vertici, attuando una sorta di obbedienza anticipata, dal momento che era chiaro a tutti che Hitler volesse eliminare gli ebrei e che ucciderli non fosse considerato un crimine.

La Shoah divenne un piano sistematico di sterminio nel giro di qualche mese, con la progettazione dei centri di assassinio col gas di Belzec, Sobibòr e Treblinka (messi in funzione dal 1942) e di un piano coordinato di deportazioni prevalentemente con trasporti ferroviari. Il tutto avvenne in un contesto di progressione controllata della violenza sul fronte orientale e con la regia sempre diretta da Berlino. Il vertice del regime funzionò sempre come istigatore del genocidio e, al contempo, come garante della legittimità dei massacri, approvando e incoraggiando le iniziative locali intraprese per intensificare le uccisioni degli ebrei, in un rapporto di reciproca ricerca di conferma: l’assassinio degli ebrei sembrava così voluto e necessario da entrambi i punti di vista, anche in conseguenza di uno scenario bellico particolarmente cruento.

Qual è il ruolo dell’Aktion T4 nell’elaborazione del progetto di genocidio degli ebrei?

Il programma di assassinio dei disabili psichici e fisici (Aktion T4) costituì un banco di prova per il regime nazista che tra il 1940 e il 1941 uccise in Germania più di 70.000 persone adulte, attrezzando finte cliniche con camere a gas. L’operazione continuò fino alla fine della guerra anche nei territori annessi e occupati, includendo tra le vittime migliaia di bambini (uccisi coi farmaci) e i prigionieri ammalati o sfiniti dei campi di concentramento. Da tempo la medicina di molti Paesi postulava la necessità di lasciar morire gli ammalati gravi o handicappati, ma fu la Germania nazista a compiere il passo verso l’assassinio di Stato, reclutando in un programma omicida i medici e le infermiere.

L’Aktion T4 permise a un gruppo di uomini delle SS di diventare assassini provetti e di salire ai massimi livelli della gerarchia. Kurt Franz e Johann Niemann sono due esempi significativi: non avevano competenze particolari, né studi di alto livello, ma si iscrissero giovanissimi al partito nazista, dimostrandosi privi di scrupoli morali, molto zelanti e ambiziosi. Dopo aver lavorato per l’Aktion T4, nel 1942 vennero scelti con un centinaio di colleghi SS, tra i quali Christian Wirth e Franz Stangl, per coordinare lo sterminio degli ebrei del Governatorato generale. A trent’anni, Franz diventerà comandante di Treblinka, Niemann il comandante di Sobibòr. L’Aktion T4 addestra un gruppo scelto di specialisti della morte, legati da un patto di segretezza, che sono in grado di far funzionare le camere a gas e dedicarsi pienamente a un incarico di élite che offre loro soldi e successo.

Come ha scritto Ian Kershaw, “la strada per Auschwitz fu costruita dall’odio ma pavimentata dall’indifferenza». Nell’immediato dopoguerra, gli Alleati anglo-americani costrinsero i tedeschi a “visite guidate” nei campi di concentramento per metterli di fronte alle atrocità commesse, smentendo la loro presunzione di innocenza. Può chiarire che livello di conoscenza c’era all’epoca, in Germania, dei massacri di ebrei e delle camere a gas?

Un recente progetto internazionale coordinato dagli Archivi Arolsen e intitolato #Last Seen, volto a raccogliere le fotografie delle deportazioni degli ebrei nel Reich, ha mostrato come i rastrellamenti siano avvenuti quasi sempre di giorno e sotto gli occhi di tutti. Anche i campi di concentramento non furono mai un segreto: erano ubicati a poca distanza dai centri abitati, gli abitanti vedevano ogni giorno arrivare in stazione i nuovi prigionieri e le file di detenuti che andavano a lavorare scortati dalle SS. Il numero di telefono del Lager era nell’elenco pubblico. Anche la Shoah era una tragedia sulla quale almeno dal 1942 circolavano voci spaventose sui massacri di massa commessi nell’Europa dell’est. Ne parlava la stampa anglo-americana, certo non facilmente accessibile in Germania, ma occorre sapere che i soldati tedeschi al fronte fotografarono le uccisioni e spedirono a casa le immagini con racconti entusiasmanti alle famiglie. Si tratta di decine di migliaia di foto che in molti casi sono rimasti di proprietà dei famigliari degli ex nazisti fino a pochi anni fa e che dimostrano una complicità tacita nel crimine.

Sicuramente i cittadini tedeschi non conoscevano i dettagli del funzionamento di Treblinka e di Auschwitz, ma assistevano senza dissentire pubblicamente alla persecuzione quotidiana dei loro vicini di casa ebrei, li vedevano ufficialmente “trasferiti a est” e sparire nel nulla, erano al corrente che accadessero loro cose terribili. L’innocenza della popolazione tedesca sui crimini commessi dal nazismo è un mito che la ricerca ha definitivamente demolito, si pensi agli studi di Peter Longerich o Robert Gellately. Alla Liberazione, gli Alleati intrapresero in Germania un’azione di denazificazione che voleva essere educativa, mettendo la popolazione tedesca di fronte ai cadaveri sfigurati nei campi di concentramento, o obbligandoli a guardare film e visitare mostre documentarie. Ma si trattò di una politica fallimentare, imposta dall’alto a milioni di tedeschi che avevano sostenuto il nazismo (o non si erano opposti) e che non produsse subito la consapevolezza di dover elaborare quel passato, prendendone le distanze e assumendosene la responsabilità.

Si parla, spesso a sproposito, di banalità del male: migliaia di funzionari burocrati senza ruolo decisionale nella Soluzione finale che hanno eseguito il loro compito senza sentirsi responsabili del male. Eichmann a processo sostenne a sua difesa di essere stato solo “una rotella nell’ingranaggio”, obbedendo a ordini superiori. Eppure la storiografia ha mostrato che questo è falso. Qual è la sua opinione?

Partirei col dire che dal punto di vista didattico insegnare la “zona grigia”, sugli spazi ambigui e opachi del comportamento umano, è una scelta vincente perché consente di interrogarsi sui confini tra male e bene, assumendo su di sé il valore della libertà della scelta, di sapere, di vedere, di parlare, di agire. Anche per questo, studiare la figura di Adolf Eichmann è in un certo senso affascinante, soprattutto se si mette al centro il personaggio del processo a Gerusalemme nel 1961: un uomo tanto ordinario da risultare banale, scialbo, goffo, non cattivo, né psicopatico, ma incapace di pensare alle conseguenze delle sue azioni. In realtà, Eichmann non fu affatto un uomo comune, ma un alto ufficiale SS inserito nel centro di potere nazista dedicato all’eliminazione degli ebrei (braccio operativo di Heydrich) che svolse un compito fondamentale: organizzare le deportazioni in massa degli ebrei verso i ghetti e poi verso i centri di sterminio. Studi recenti come quello di Bettina Stangneth hanno dimostrato che oltre allo zelo e all’obbedienza, lo specialista della questione ebraica, come lui stesso si definì al processo, mise tutta la sua creatività e energia per contribuire a rendere lo sterminio un processo efficiente ed efficace. Se sfogliamo gli album dei comandanti SS, Karl Otto Koch a Buchenwald, Johann Niemann a Sobibòr, Karl-Friedrich Höcker ad Auschwitz, gli assassini non sembrano dei mostri, ma sono ripresi sorridenti, distesi, mentre compiono azioni comunemente banali come bere, mangiare, prendere il sole, ascoltare la musica, passeggiare.

In merito al pensiero di Hannah Arendt, alla quale non si può rimproverare negli anni 1960 di avere la conoscenza della Shoah di oggi, credo che molti l’abbiano frainteso. La filosofa non ha mai scritto che il male fosse banale, ma che Eichmann lo pensasse come tale, lo facesse sembrare banale e apparisse (non che fosse) come un uomo incapace di pensiero e libertà di azione. Resta comunque il contributo imprescindibile che Arendt ci ha dato, coniando la tanto controversa espressione di banalità del male: mettere in luce l’enorme sproporzione tra la mostruosità e l’enormità del crimine e l’ordinarietà e mediocrità di chi lo commette, in antitesi con la tradizione teologica, filosofica, morale e giuridica, da Agostino a Kant, che legava insieme le azioni di male con la natura malvagia di chi li compie.

Ampliamo la prospettiva. Come Responsabile italiana del Mémorial de la Shoah di Parigi, pro-muovete tanti seminari internazionali e convegni coi Paesi dell’Europa. Può dirci quali sono gli obiettivi del vostro lavoro, in quale direzione si sta andando nell’insegnamento della Shoah e che cosa resta ancora da migliorare?

Il Mémorial de la Shoah, prima istituzione al mondo creata per preservare la memoria del genocidio ebraico, oggi è un centro internazionale di insegnamento con rapporti di cooperazione con una ventina di Paesi europei, ma anche col Ruanda e l’Africa del Nord. I due terzi delle risorse vengono investiti per promuovere la formazione storica e la trasmissione della memoria, soprattutto al mondo della scuola e dei giovani. Gli insegnanti sono attori centrali della società, hanno un ruolo educativo fon-damentale e devono essere sostenuti, incoraggiando l’aggiornamento delle conoscenze e lo sviluppo di nuove competenze didattiche con attività qualificate. Dal 2016 è stato lanciato il progetto The Holocaust as a Starting Point che coinvolge i docenti di Paesi europei confinanti, i quali hanno avuto nella loro storia del Novecento la tragedia della Shoah, ma anche altre forme di violenza politica e atrocità di massa. L’Italia partecipa fin dalla prima edizione, con la Slovenia e la Croazia, attraverso la co-progettazione di seminari che si alternano ogni anno a Zagabria, Trieste e Lubiana. L’obiettivo è il confronto tra storici, tra narrazioni pubbliche della storia, processi di memoria e modalità di insegnamento scolastico, in un clima di dialogo che affronta anche questioni sensibili o controverse. È un esempio di come l’insegnamento della Shoah oggi evolva verso una direzione transnazionale e sia inserito nel contesto più ampio del Novecento, senza timore di comparare la Shoah con altre forme di violenza sui civili.

Restano molte cose da migliorare: l’aggiornamento dei libri di storia in uso a scuola che si basano su una storiografia ormai datata, lo sviluppo di metodologie interattive capaci di parlare ai giovani anche coi nuovi linguaggi del web, un maggiore coinvolgimento e sostegno da parte delle autorità governa-tive preposte all’Istruzione per far sì che sempre più insegnanti possano formarsi, incontrare colleghi e relatori di altre nazioni, aprire gli orizzonti culturali e ritrovare entusiasmo per l’insegnamento della storia che oggi pare in declino nelle scuole italiane.

Lei è autrice di un libro importante, Gli Italiani ad Auschwitz. 1943-1945. Deportazioni, “Soluzione finale, lavoro forzato. Un mosaico di vittime”, pubblicato a fine 2021 dal Museo Statale di Auschwitz-Birkenau. Che novità porta la sua ricerca?

La persecuzione degli ebrei italiani sotto l’occupazione nazista e la RSI era già stata studiata dagli storici, mentre del destino di più di 1.200 deportati italiani non ebrei, classificati come politici, che finirono ad Auschwitz non si sapeva molto. La storiografia italiana ha sempre tenuto separate la Shoah e la deportazione politica. Per la prima volta, è stata scritta una narrazione storica inclusiva e più completa, in cui le tragiche vicende dei due gruppi di deportati vengono inserite nel contesto delle politiche naziste e analizzate in chiave comparativa, facendo emergere gli aspetti comuni dell’inter-namento ad Auschwitz (situazione che come ho già ricordato riguardò una sparuta minoranza di ebrei) e le specificità. Le storie di più di mille donne deportate da Gorizia e Trieste, molte delle quali erano slovene e croate, ma nate o cresciute in territori sotto il Regno d’Italia – ma anche delle operaie lombarde partite da Bergamo, punite per aver scioperato, sono emblematiche per spiegare la com-plessità di un luogo criminale come Auschwitz tra l’autunno 1943 e il 1944: accanto allo sterminio degli ebrei, il sito funzionava come gigantesca rete di campi di concentramento e di lavoro forzato, nonché come centro di smistamento per prigionieri che venivano poi destinati ad altri Lager. Nel dopoguerra, le testimonianze delle sopravvissute slovene e croate non ebree hanno faticato a diffon-dersi, sia per mancanza di traduzione dei loro ricordi in italiano, sia perché le ricostruzioni nazionali della deportazione hanno escluso o tenuto ai margini queste vicende, sebbene si trattasse di persegui-tate di cittadinanza italiana.

Far conoscere la storia di tutte le vittime, senza amalgamare le ragioni della violenza nazista, è un atto di memoria e di giustizia.

Prendiamo l’esempio-paradigma della Topografia del terrore a Berlino. Pensare e ricercare il punto di vista, un tempo indicibile e invalicabile, dei carnefici (täter), può significare, in un certo senso, umanizzarli?

Nella storiografia, non solo tedesca, il concetto di carnefice si è molto evoluto: fino al processo Eichmann, era visto come un individuo di indole crudele e demoniaca, con tratti da psicopatico. In Germania, questo ha consentito di isolare il gruppo “deviato” della società tedesca (Hitler e la sua cerchia, le SS, la Gestapo, ecc.), considerando il nazismo come una parentesi catastrofica e, sostanzialmente, assolvendo la maggioranza dei tedeschi dell’epoca con la leggenda dell’innocenza collettiva. Allargare l’interpretazione dei Täter a un universo più ampio e diversificato di persone le cui scelte individuali avevano reso possibile la Shoah e gli altri crimini implicava una maturazione delle coscienze e maggiore distanza emotiva dal passato. Presupponeva inoltre accettare l’idea che per compiere simili atrocità di massa fosse stato necessario il coinvolgimento dello Stato, vale a dire una miriade di individui e gruppi sociali che hanno interagito coi vertici del regime con vari livelli di responsabilità. La Topografia del Terrore nasce in questo contesto. Il progetto poggia sulla convinzione che invece di ricostruire le sedi distrutte degli uffici della RSHA (Direzione generale per la sicurezza del Reich) fosse più efficace lasciare urbanisticamente visibile il vuoto, come una macchia che non può essere ripulita costruendoci sopra qualcosa, e creare un centro di documentazione con un linguaggio capace di parlare a tutti. Le biografie dei nazisti sono presentate con rigore, ma avendo cura di non urtare la sensibilità dei sopravvissuti ed evitare l’attrazione morbosa per il male che molti visitatori, soprattutto giovani, provano per i grandi criminali. In altre mostre centrate sui perpetratori, ad esempio nell’ex KL di Neuengamme o di Ravensbrück, i Täter sono descritti anche nei loro aspetti quotidiani (ad esempio in famiglia), ma non per normalizzare il male. Attraverso la decostruzione del linguaggio nazista, il confronto con le testimonianze delle vittime e i documenti sull’esito delle loro azioni, questa normalità emerge come indissolubilmente legata al lavoro criminale, mostrando che questi uomini e queste donne svolsero il loro compito col massimo zelo e distacco emotivo, ritenendolo non solo legittimo, ma anche motivo di orgoglio e ascesa sociale.

Quanto i film hollywoodiani hanno aiutato e promosso, e quanto hanno distorto, diffondendo errori e generalizzazioni, una responsabilità ed educativa cultura della memoria?

Il cinema americano ha avuto il merito di divulgare una conoscenza sommaria della Shoah. Un po’ come Susan Sontag che da ragazzina rimase sconvolta dalle fotografie scattate alla liberazione nei campi, anche per me quell’epifania negativa arrivò da adolescente guardando delle immagini, nel mio caso la miniserie televisiva statunitense Olocausto (1979) e tre anni dopo il film La scelta di Sophie. Ci sono voluti anni di studio per comprendere le distorsioni storiche di queste opere. L’americanizzazione della Shoah che si è diffusa coi film ha trasformato l’individuo comune in protagonista, accentuando il pathos e costruendo la trama su un dualismo netto tra buoni e cattivi. Lo scopo di raggiungere il grande pubblico e suscitare emozioni è stato raggiunto al prezzo di una semplificazione estrema dei fatti storici che ha trasformato la Shoah in un fenomeno culturale, più che in un’occasione per approfondire. Il merito di questi film è nell’intenzione di tener vivo il ricordo, uno dei limiti sta nell’aver abituato il pubblico a una narrazione di facile spiegazione, con una trama avvincente, protagonisti e ruoli ben definiti, in cui la fine della storia è già intuibile nelle prime scene. Anche in lavori di qualità come Schindler’s List, ci sono dei clichés. L’attore che interpreta il crudele Amon Göth ha una bellezza sfacciata che non corrisponde alla realtà, ma che è funzionale al regista per enfatizzare il gioco perverso dell’attrazione sessuale per la prigioniera ebrea, ugualmente bella, conferendo alla violenza un lato fastidiosamente conturbante.

La post-memoria. L’era del testimone sta finendo. Quali sono secondo lei le maggiori sfide educative nella nostra epoca?

Negli ultimi vent’anni, i sopravvissuti della Shoah sono stati posti al centro della narrazione pubblica, accentuando il significato di verità assoluta del loro racconto, anziché contestualizzarlo e metterlo in relazione con altre vicende individuali e con la storia. Negli incontri coi giovani, spesso con platee di migliaia di ragazzi, i superstiti sono stati, loro malgrado, trasformati in eroi positivi, trattati con un’aurea quasi di sacralità: il solo fatto di essere sopravvissuti è stato letto come esempio di resistenza e accolto dal pubblico come una consolazione alla barbarie, dimenticando che invece, come molti hanno ricordato, ad esempio Primo Levi o Liliana Segre, non c’è merito particolare per essere rimasti in vita, né sono i migliori a essersi salvati, tanto era arbitraria e assoluta la violenza a cui furono sottoposti.

La preoccupazione che con la scomparsa dell’ultimo testimone diretto possa declinare la comprensione della Shoah è esagerata a mio avviso e, se ci pensiamo, mina il valore stesso di quello che ci hanno consegnato i sopravvissuti, chiedendoci di fare tesoro della loro esperienza, continuando a trasmettere la storia. Le testimonianze sono state registrate, filmate, raccolte sistematicamente in archivi digitali disponibili a tutti, oggi la Shoah conta milioni di opere di ricerca e divulgazione, senza contare la produzione narrativa e artistica.

Ora tocca a noi studiare questo patrimonio di documenti scritti e orali, elaborarli in contenuti di senso non solo per comprendere il passato ma anche per leggere i segnali del male che purtroppo minacciano anche il nostro presente e ci chiedono di agire e di reagire.

VISUALIZZA L’ARTICOLO ORIGINALE IN SLOVENO

Condividi questo post

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *